OPERA MORTA “si tout est sculpture pourquoi faire de la sculpture?”
davide mancini zanchi, daniele puppi, giovanni termini, eugenio tibaldi
a cura di Simone Ciglia
Opera morta “si tout est sculpture pourquoi faire de la sculpture?” è una mostra che si propone d’interrogare lo statuto della scultura contemporanea in Italia attraverso una selezione di quattro autori appartenenti a diverse generazioni.
Opera morta è un termine preso in prestito dalla nautica, dove indica la porzione dello scafo di un’imbarcazione al di sopra della linea di galleggiamento. Attraverso questa metafora, si vuole indicare la natura fluttuante del fare scultoreo, entrato nell’epoca postmoderna in un “campo espanso” – come rilevato da Rosalind Krauss – che ne ha esteso le possibilità in maniera virtualmente illimitata. La questione allora è quella che si poneva l’artista Ben Vautier in una sua opera: “se tutto è scultura perché fare della scultura?” Gli artisti presenti in questa mostra articolano una risposta – che non può essere conclusiva – attraverso una pluralità di posizioni.
La pratica di Giovanni Termini (Assoro, 1972) è fortemente radicata nel linguaggio plastico, erede di una precisa linea italiana. L’artista esprime una concezione costruttiva del medium che trova la matrice fondamentale nel fare dell’homo faber, riattivando materiali e processi provenienti da mondi diversi, come quello del lavoro.
Con un’attitudine improntata a una leggerezza calviniana, Davide Mancini Zanchi (Urbino, 1986) rivisita alcuni archetipi dell’arte – come l’astrazione – aprendone i confini verso il valore d’uso, in una dialettica fra la tradizione aulica della storia dell’arte e l’iconografia popolare più banale.
Il lavoro di Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) indaga le nozioni di margine e periferia secondo una molteplicità di prospettive – sociale, economica, politica, geografica. Attraverso una pratica fondata sulla ricerca sul campo, l’autore mette in atto processi partecipativi che trovano la sintesi in una riflessione personale formalizzata in un’opera sempre rispettosa delle ragioni dell’altro.
Daniele Puppi (Pordenone, 1970) espande l’immagine in movimento e il suono attraverso un investimento dello spazio, concepito come «potenziale di forze in movimento». Il cinema è una fonte importante nell’immaginario dell’artista, che lo rianima attraverso un dispositivo tecnologico indirizzato al coinvolgimento dello spettatore.